Ogni limite ha il suo infinito: come Leopardi, il Kenya e lo stupore degli astronauti mi hanno aiutato a guardare oltre il Coronavirus.[1]

Bernardino Meloni – Psicologo Psicoterapeuta

La nostra libertà non sta fuori di noi, ma in noi.

Si può essere vincolati all’esterno e tuttavia sentirsi

liberi, perché ci si è liberati dalle catene interiori.”

(C.G. Jung)

Nell’appena concluso periodo di clausura, ci siamo confrontati con forti limitazioni. Non siamo andati al lavoro, bambini e ragazzi sono rimasti a casa da scuola, le città si sono progressivamente svuotate.

Le limitazioni di movimento e di incontro in Italia sono state potentissime, ma non sono state le uniche: il Coronavirus ha influenzato anche il nostro modo di pensare. Un esempio: come abbiamo vissuto e interpretato questo tempo “domestico”?

C’è chi ha preferito non misurarlo, non tenere conto dei giorni dall’inizio del lockdown. Un mio paziente, giovane brillante e molto riflessivo, poche settimane fa, riportava un aneddoto interessante: “Appoggiato su una sedia c’è il mio piumino… è lì da quando tutto è iniziato. Rimane lì perché è fastidioso metterlo via… mi fa realizzare quanto tempo è passato… quando lo usavo era inverno, ora è primavera.” La portata della pandemia è stata tanto dirompente che abbiamo sentito il bisogno di difenderci, smettendo di pensare e di misurare il tempo. Forse anche per questa ragione in molti hanno definito questo tempo “sospeso”.

Una limitazione ancora più profonda, riguarda la nostra attitudine a fantasticare, immaginare e progettare. In piena “Fase Due” ci dicono che potremo andare in vacanza, ma quanti di noi pensano realmente a quel periodo? Possiamo prenotare il viaggio ma riusciamo davvero a immaginarci in quella situazione? Possiamo cioè compiere l’azione ma siamo in grado di sostare nel campo del pensiero e delle emozioni connesse all’azione stessa? Tenere insieme il tema della pandemia con quello delle vacanze produce una dissonanza cognitiva difficile da gestire.

Una paziente, persona estremamente sensibile, arguta e amante dei viaggi, mi comunica proprio questo quando dice “Prima si poteva fantasticare ad esempio su un viaggio, un cammino, magari non necessariamente realizzarli, ora invece sembra che il mondo si sia allontanato con un effetto dissolvenza, un treno che diventa sempre più piccolo all’orizzonte. La parola distanza presuppone un tragitto con cui poterla colmare, ma ora di colpo questa possibilità è stata cancellata”.

Non è semplice prendere le distanze dal mondo disegnato dall’emergenza perché parliamo di un periodo lungo e caratterizzato da una seria minaccia per ciascuno di noi. Il Coronavisus è, come dice Magris sul Corriere della Sera, un tiranno che vuole che si parli solo di lui: “In questi giorni, con la cosiddetta fase 2, e con il tentativo di riprendere la nostra piccola libertà vagabonda, si prova un senso di ancor incredula liberazione, quasi di felicità, anche se il vento del mare che si riceve in faccia passeggiando sulle sue rive non dissolve l’ossessiva, ininterrotta fissazione sulle parole, sulle immagini e sulle dispute relative al virus, che fanno di esso pure un tiranno dei nostri pensieri. Un tiranno che, come tutti gli altri, non vuole si pensi ad altro se non a lui e non si parli d’altro se non di lui.”[2]

Nonostante l’Organizzazione Mondiale della Sanità[3] invitasse a limitare la continua ricerca di aggiornamenti e di notizie, nelle prime e terribili settimane, molti di noi hanno trasgredito alle linee guida, seguendo ore di notiziari per incamerare dati. Davanti al televisore, tra paure e speranze, pagavamo il nostro tributo al tiranno.

Dopo alcune settimane, ho avuto la percezione netta che tutte quelle informazioni e quei dati non mi aiutassero ma che, al contrario, mi stessero confondendo. La mole di notizie si ammassava costruendo un muro che rubava la possibilità di pensare ad altro, di viaggiare con l’immaginazione, di progettare anche “a fondo perduto”. Ho sentito il bisogno di guardare oltre.

Leopardi, il Kenya e lo stupore degli astronauti.

Tre esperienze, capitate quasi per caso, hanno sostenuto questa mia azione di decentramento e promosso un cambiamento nel modo di pensare a questo complessissimo periodo. Le condivido di seguito sperando che possano essere in qualche modo d’aiuto ad altri.

La prima esperienza è avvenuta quando ho ripensato a Leopardi, autore a me particolarmente caro; ho riletto alcune sue opere e, in particolare, il suo canto “L’infinito”. La presenza di un limite, rappresentato dalla siepe, permette di guardare oltre, di spaziare tra presente, passato e futuro, per sentire pienamente. Leopardi aveva avuto modo di sperimentare il limite in svariati ambiti di vita: relazionale (ad esempio, con i genitori), emancipativo (si pensi al divieto di lasciare Recanati impostogli dal padre), fisico (per i numerosi problemi di salute), storico (non venne riconosciuta dai contemporanei la grandezza della sua opera). Nel suo canto più celebre, Leopardi compie un’azione, che ben descrive la sua attitudine a rifiutare i limiti, e con l’immaginazione va dove la vista non può arrivare (“Io nel pensier mi fingo”)[4]. Proprio Leopardi, nello Zibaldone, scrive “L’anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe, se la sua vista si estendesse da per tutto, perché il reale escluderebbe l’immaginario”.[5]

Il limite può dunque rappresentare un’opportunità. E’ “il momentaneo digiuno dell’oltre che genera desiderio[6] ricorda D’Avenia.

La seconda esperienza parte da una collega, anche lei come me con i bambini a casa, la quale mi invita a far veder ai miei figli il video ripreso da una webcam in Kenya[7]: il video registra la vita intorno a un piccolo laghetto dove gli animali presumibilmente andranno ad abbeverarsi. La prima volta che accedo al sito è notte fonda. Sono solo; la visibilità è ridotta perché è buio ma sento i rumori catturati a 9400 km da casa mia. 9400 km da quelle stanze che sono diventate il mio mondo nelle ultime settimane. Posso sentire nitidamente il suono emozionante del vento. Poi, all’improvviso, emergono dal buio due elefanti che vanno a bere. Una scena perfetta. E’ un altro mondo, un mondo vivo, distante da quanto sta avvenendo da noi. Quegli elefanti rappresentano la Natura che prosegue, con semplicità e saggezza, il proprio corso. Stupendo.

La terza esperienza è arrivata negli stessi giorni, quando mi è tornato in mente il fenomeno definito “Overview effect” [8](effetto della “Veduta d’insieme”) teorizzato nel 1987 da Frank White. Si tratta di “un cambiamento cognitivo nella consapevolezza riportato da alcuni astronauti e cosmonauti durante il volo spaziale, causato dall’osservazione della Terra dall’orbita o dalla superficie lunare”.

L’Overview effect si riferisce “all’esperienza di vedere in prima persona la realtà della Terra nello spazio, la quale viene subito percepita come una piccola, fragile sfera della vita, “appesa nel vuoto”, avvolta da una sottile atmosfera che la protegge dall’ambiente esterno. Dallo spazio, sostengono gli astronauti, i confini nazionali svaniscono, i conflitti che dividono le persone diventano meno importanti, e la necessità di creare una società planetaria con la volontà unitaria di proteggere questo “pallido punto azzurro nello Spazio” diventa evidente ed imperativo”.[9] L’effetto “veduta d’insieme” viene studiato da diversi anni: dai resoconti di diversi astronauti “sono emerse come parole chiave i termini di unità, vastità, connessione e percezione e per tutti gli astronauti questa vista viene considerata come un momento che ha cambiato la loro vita.[10] Si parla dunque di auto-trascendenza, come riportano nel loro studio del 2016, David Yaden, Johannes Eichstaedt e Jonathan Iwry[11]. Le esperienze di auto-trascendenza sono sentimenti temporanei caratterizzati dalla riduzione della “auto-salienza” e dall’incremento di sentimenti di connessione. In altre parole, durante questo genere di esperienze, le persone possono andare oltre la propria identità che diventa secondaria rispetto al forte senso di connessione con altri individui, con l’intero genere umano e persino con l’intera esistenza.[12]

Di seguito il contributo dell’astronauta NASA Rusty Schweikart:

“You identify with Houston and then you identify with Los Angeles and Phoenix and New Orleans . . . and that whole process of what it is you identify with begins to shift when you go around the Earth . . . you look down and see the surface of that globe you’ve lived on all this time, and you know all those people down there and they are like you, they are you—and somehow you represent them. You are up there as the sensing element, that point out on the end . . . you recognize that you’re a piece of this total life.”[13]

E quello dell’astronauta NASA Sam Durrance:

You’ve seen pictures and you’ve heard people talk about it. But nothing can prepare you for what it actually looks like. The Earth is dramatically beautiful when you see it from orbit, more beautiful than any picture you’ve ever seen. It’s an emotional experience because you’re removed from the Earth but at the same time you feel this incredible connection to the Earth like nothing I’d ever felt before.[14]

Tornando a questi ultimi mesi, si diceva sopra, il Coronavirus ha ridotto i termini della realtà, non solo quella visibile ma anche quella pensabile. Prendendoci alla sprovvista, ha saputo disorientarci e spaventarci. In affanno, abbiamo concentrato l’attenzione su noi stessi e sui nostri cari. Ci siamo sentiti vulnerabili e spesso, inconsapevolmente, abbiamo ridotto l’Altro a una minaccia per noi stessi: la riduzione della relazione ai soli rischi di infezione.

Mentre leggevo Leopardi, sentivo il vento del Kenya o riguardavo le immagini del nostro pianeta visto dalla Luna, il Coronavirus imperversava ma dentro di me, per alcune ore, è rimasto in silenzio. L’auto-trascendenza e il decentramento permettono una narrazione diversa del periodo che stiamo vivendo, di noi stessi e di noi in relazione con l’Altro.

Credo sia importante, forse oggi addirittura necessario, che ciascuno di noi cerchi una narrazione alternativa che permetta di prendere le distanze dal tiranno e dai vissuti di minaccia costante che ci allontanano, per tornare a vedere noi stessi, fragili ma pur sempre in connessione. E guardare quella fragilità non più solo con paura, ma con indulgenza, accettazione e cura. Poter riscoprire che esistiamo in una storia più ampia di quella che ci stiamo raccontando, che siamo parte di un mondo e di un universo vivo e bellissimo; poter vedere che da sempre, da molto prima che comparisse il Coronavirus, tutti noi siamo un’unica, infinitesimale, irrinunciabile parte dell’immensità.

Nella consapevolezza della nostra fragilità comune risiede anche la nostra maggiore forza.  


NOTE

[1] Le riflessioni contenute nel presente articolo partono da un’osservazione parziale della drammatica vicenda “Coronavirus”. Non fare riferimento al numero impressionante di perdite di vite umane e di persone che si sono ammalate non significa non essere consapevoli della tragicità e dolore con i quali siamo venuti in contatto negli ultimi mesi.

[2] Claudio Magris, Coronavirus è un nuovo muro tra noi, Corriere della Sera, 7/5/2020;

[3] https://www.who.int/docs/default-source/coronaviruse/mental-health-considerations.pdf?sfvrsn=6d3578af_2

[4] Giacomo Leopardi, Canti, Garzanti Editore, 1989;

[5] Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri, Mondadori, 1998:

[6] Alessandro D’Avenia, L’arte di essere fragili. Come Leopardi può salvarti la vita, Mondadori Libri, 2016;

[7] https://www.skylinewebcams.com/it/webcam/kenya/taita-taveta-county/voi/tsavo-east-national-park.html

[8] https://it.wikipedia.org/wiki/Effetto_della_veduta_d%27insieme

[9] https://www.youtube.com/watch?v=5mTdVeEkVaE

[10] https://www.ansa.it/scienza/notizie/ragazzi/primopiano/2016/04/20/vedere-la-terra-dallo-spazio-e-unemozione-che-cambia-la-vita_c701e8f7-1661-4f40-a4a3-58893480716a.html

[11] David Yaden, Johannes Eichstaedt e Jonathan Iwry, “The Overview Effect: Awe and Self-Transcendent Experience in Space Flight”, in Psychology of Consciousness: Theory, Research, and Practice © 2016 American Psychological Association, 2016, Vol. 3.

[12] David Yaden, Johannes Eichstaedt e Jonathan Iwry, “The Overview Effect: Awe and Self-Transcendent Experience in Space Flight”, in Psychology of Consciousness: Theory, Research, and Practice © 2016 American Psychological Association, 2016, Vol. 3.

[13] David Yaden, Johannes Eichstaedt e Jonathan Iwry, “The Overview Effect: Awe and Self-Transcendent Experience in Space Flight”, in Psychology of Consciousness: Theory, Research, and Practice © 2016 American Psychological Association, 2016, Vol. 3.

[14] David Yaden, Johannes Eichstaedt e Jonathan Iwry, “The Overview Effect: Awe and Self-Transcendent Experience in Space Flight”, in Psychology of Consciousness: Theory, Research, and Practice © 2016 American Psychological Association, 2016, Vol. 3.

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